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lunedì 22 gennaio 2018

DE OBŒDIENTIA

La parola “obbedienza” è una parola che ha subito, in una certa cultura e in una certa mentalità, anche oggi molto diffusa, un destino sfavorevole; è stata associata all’idea di sottomissione, quasi schiavizzazione; è stata intesa come perdita e rinuncia alla libertà, e quindi una diminuzione della persona. Non poteva capitare un destino peggiore all’obbedienza, che non è nulla di tutto ciò, e che è invece una realtà positiva; positiva, se Cristo stesso l’ha scelta e l’ha voluta vivere: “fattosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8).

È interessante, per capire la natura e l’essenza dell’obbedienza, analizzare i termini latino e greco che esprimono l’obbedienza. Il latino e il greco sono le radici della nostra lingua e della nostra cultura.

La nostra parola “obbedienza” deriva dal latino “ob-audire”, che significa “udire, ascoltare con l’animo rivolto e aperto a qualcuno che ti parla, a qualcuno in cui tu ravvisi autorevolezza”. L’obbedienza quindi chiede un gesto di decentramento da sé, di uscita da sé per impiantarsi in un altro. Questo decentramento da sé manca nel concetto di obbedienza greco, pagano. In greco il verbo “peitho” significa “persuadere”. “Peitho” è forma attiva del verbo. Nella forma passiva “peitho” significa “venir persuaso, essere persuaso”. Il greco ha anche la forma ‘media’ cosiddetta, “peithomai”, che significa “persuadersi”, e insieme “ubbidire”. Il fatto che la lingua greca esprima allo stesso modo, con la stessa forma verbale, con la stessa parola, sia “persuadersi” che “obbedire”, significa che per l’uomo greco, pagano, l’obbedienza è il gesto che va fatto quando tu ti sei persuaso della giustezza di quello che per obbedienza ti viene chiesto.
Ma questa non è obbedienza, è un OBBEDIRE A SÉ STESSI.


(topic di discussione in un gruppo)

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