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lunedì 5 novembre 2018

E’ ora di parlare di saturazione da bondage by Ayzad


Qualche weekend fa sono stato a Bologna in qualità di giurato del Bizzarro Film Festival, una divertente manifestazione che è stata anche la scusa per rivedersi con qualche amico e partecipare a un paio di feste kinky. È stato così che ho incontrato tre rinomati rigger (cioè esperti di bondage) fra il pubblico del festival, due insegnanti di legature alla prima festa e un’altra alla seconda. Mi sarei aspettato di ritrovare anche un’altra superstar delle corde che ha una scuola proprio in città, ma non ho avuto fortuna. In compenso questa strana coincidenza mi ha dato da pensare – soprattutto perché, nonostante la densità di legatori, mancavano almeno altri sei titolari di altrettante scuole italiane di kinbaku.
Il colpo di grazia è arrivato subito prima di tornare a casa. Ero seduto al bar della stazione, e due tavolini più in là ho riconosciuto una figura storica del BDSM romano che non incrociavo da tempo, con cui ho approfittato per fare due chiacchiere. 

«No, non frequento più molto la scena,» mi ha confermato, «anche perché mo’ so’ tutti fissati co’ ‘ste corde giapponesi… fanno solo quello e so’ tutti maestri, pure i regazzini de vent’anni… che te devo di’, io le mie donne le ho sempre legate, ma de vede’ ‘ste provole insaccate appese dappertutto, tutte uguali… aho’ all’età mia me so’ pure rotto i cojoni! Preferisco divertimme, no?»

Non posso negarlo: non aveva tutti i torti. Ho sempre ammesso di non essere un grande appassionato di bondage, tuttavia l’ambiente delle corde nel nostro paese ha raggiunto una saturazione tale che non parlarne sarebbe assurdo.

Il fascino dei legami, va detto, è innegabile. Immobilizzare un partner tocca archetipi relazionali ed erotici tanto intensi quanto eccitanti; l’estetica di un corpo imprigionato è talmente evocativa da far parte da sempre del mondo artistico – anche dove non ci sia (ma ne siamo sicuri?) alcun intento sessuale.
Da un punto di vista psicologico, poi, il bondage ha il vantaggio di costituire un ottimo alibi per chi non si senta del tutto a proprio agio nell’ammettere i propri desideri kinky. È come se l’inconscio potesse risolvere ogni conflitto interiore con: «non è mica colpa mia… naturalmente non avrei mai fatto quelle cose sconce, ma mi era stata tolta la possibilità di rifiutarmi…» per buona pace di ogni educazione repressiva. Ovvio quindi che il bondage attragga molte persone, e che sia spesso il punto d’ingresso al mondo del BDSM. Però bisogna pure riconoscere che, se le scuole di questa pratica sono comuni quanto i McDonald’s, qualcosa debba essere sfuggito di mano.

Lasciate che vi riveli un segreto. L’illuminazione sul senso del bondage io l’ho avuta solo dopo dieci anni abbondanti di immersione nell’ambiente dell’eros estremo. Prima di allora, infatti, mi ero sempre chiesto che gusto ci fosse nel perdere mezz’ora a impacchettare qualcuno, guardarselo un attimo, magari fargli una foto e subito disfare tutto il lavoro compiuto – semplicemente perché questo era ciò che mi era stato mostrato in mille esibizioni, servizi fotografici, video, corsi e via elencando. Era tutto molto tecnico e interessante, a volte pure bello da vedere, ma profondamente insensato. Poi, una notte a Parigi, mi capitò di vedere un tale che dopo aver sospeso la sua partner a una trave esattamente come tutti gli altri… si mise a fare con lei piccoli giochi BDSM e addirittura sesso. Lo so che detta così sembra assurda, ma questa banalissima “innovazione” – che ancora oggi resta più un’anomalia che la regola – mi colpì come la mela di Newton. «Ma allora il bondage serve a qualcosa!» pensai, sorpreso come uno scimpanzé cui abbiano mostrato che le banane vanno sbucciate prima di mangiarle.
Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, la filosofia del legare per il puro gusto di legare è ancora la modalità prevalente con cui viene presentata “l’arte del bondage”. Addirittura, conosco diversi insegnanti che negano in tutti i modi che ci possano essere altre implicazioni: magari parlano per ore della storia di una determinata legatura, delle differenze fra i tipi di corda e – al limite – della tensione poetica dello scambio energetico fra i partner… ma no, per loro non c’è niente di carnale, ci mancherebbe!

Il punto è che la prevalenza di questo approccio tecnico alle corde fa apparire il bondage più innocuo e accessibile (ricordate la cosa dell’alibi?) ma gli toglie anche sensualità e onestà, millantando che si tratti di un passatempo per filosofi eccentrici tipo l’ikebana. O, come diceva quell’amico in stazione, è fermarsi solo alla prima lettera di ‘BDSM’ negandosi il piacere delle altre tre.
E non solo: parlando di arti orientali, va notato anche come ormai il bondage si sia ridotto al solo kinbaku – cioè lo stile giapponese di uso delle corde – oltretutto codificato in un numero molto limitato di figure sempre uguali che ignorano la creatività personale e gli infiniti altri modi di giocare con l’immobilizzazione. È come se dalla fantasia collettiva fossero scomparse cinghie, catene, strumenti di contenzione, manette, mobilia restrittiva, mummificazioni, immobilizzazioni mentali, fasce, abiti costrittivi e tutto il resto dell’armamentario che per secoli ha fatto parte della cultura della dominazione erotica. Comprese le corde usate in stile occidentale, che di questi tempi sono in pericolo di estinzione peggio dei lupi marsicani.

L’aura di nipponicità obbligatoria che permea l’ambiente del bondage porta con sé anche un immaginario marziale fatto di misteriosi riti orientali, venerabili e infallibili sensei investiti di sapienza millenaria, o dojo ai cui adepti vengono rivelate tecniche segrete in competizione con quelle di altre scuole, come se fossimo tornati tutti ai tempi delle medie e alle risse durante la ricreazione quando si cercava di imitare Il ragazzo dal kimono d’oro visto il pomeriggio prima su TeleRadioValTrompia. Del resto è vero: imparare il kinbaku non è proprio semplicissimo ed è importante farsi una cultura soprattutto su come evitare i rischi di una pratica improvvisata… ma fra questo e accettare un cosplay tirato per i capelli c’è parecchia differenza.
Per carità: voglio un mondo di bene a chi si diverte così. Eppure è difficile non sorridere quando si vedono ragazzi di provincia bardati in kimono marchiati Aliexpress, che si presentano con pseudonimi in giapponese de noantri e magari spacciandosi per supremi cultori dell’antica arte. Che, per inciso, i giapponesi veri hanno reinventato solo dopo il 1950: prima c’era al massimo Seiu Ito, un illustratore che aveva studiato antiche stampe dimenticate in cui erano descritte le legature punitive – e a volte letali – usate dalle autorità di qualche secolo prima. Lo stesso Ito venerato ancora oggi da tanti appassionati, che però nelle interviste (è morto nel 1961) ripeteva di non essere affatto un maestro, ma solo un pervertito qualunque. Alla faccia di chi oggi si spaccia per un novello maestro Miyagi.



In effetti anche le scuole di bondage sono un’aberrazione neoliberista piuttosto recente. Fino a una decina di anni fa la figura dell’istruttore di bondage professionista non esisteva nemmeno: si imparava a legare facendo pratica con il partner e al limite con gli amici – quello che oggi si chiama peer rope – e studiando al massimo i libri scritti da chi veramente aveva passato decenni a studiare come usare le corde senza farsi male. Ricordo il mio primo incontro con Go Arisue, parecchi anni fa: lui era già una superstar del kinbaku famosa per avere realizzato le legature di molti film mainstream, eppure a chiunque gli chiedesse lezioni di bondage rispondeva molto imbarazzato di non avere alcuna autorità per insegnare.
La logica, la visione stessa del mondo però nel frattempo sono cambiate. Oggi si desidera tutto e subito; il risultato viene visto come più importante del percorso per raggiungerlo… e vista la domanda sempre più ampia – alimentata dal desiderio di emulazione – è anche naturale che sia cresciuta un’offerta altrettanto vasta di corsi, tutoraggi, scuole e chi più ne ha più ne metta. Come se per far propria la sensualità del bondage bastasse pagare un tot di moduli didattici precotti.

Un altro problema legato alla proliferazione di scuole di bondage è che, naturalmente, non esiste un Ministero dello Shibari che certifichi la preparazione degli insegnanti. E siccome anche loro possono essere vittime della convinzione che basti conoscere qualche nodo per ritenersi esperti, può capitare di imbattersi in “maestri” non così abili quanto suggerirebbe il loro marketing – o le recensioni estasiate fatte da allievi privi degli strumenti per rendersi conto dell’effettiva qualità del docente.
Nel corso degli anni mi è successo allora di vedere “esperti” privi delle minime conoscenze di fisiologia e di fisica necessarie per garantire la sicurezza delle persone legate; grandi tecnici dei nodi cui mancava però il concetto di empatia nelle relazioni; esaltati (ed esaltate, certo) che ignoravano cosa fosse la consensualità; gente convinta di poter ridurre il bondage a una catena di montaggio per arricchirsi – in nero – velocemente; individui che in buona fede ripetevano nozioni sbagliate apprese chissà dove; gli immancabili narcisisti in cerca di riscatto dopo essere stati ostracizzati dal resto della società… Insomma, numerosi personaggi sconsigliabili mescolati a chi invece si comporta con la massima correttezza e serietà. Peccato che per qualcuno che stia muovendo i primi passi in questo ambito siano indistinguibili gli uni dagli altri.

Affidarsi all’insegnante sbagliato, che magari proclama qualifiche eccezionali ma in realtà ha solamente visto qualche tutorial su YouTube, oppure dichiara di avere studiato sotto un maestro famoso avendo in realtà partecipato appena a un breve seminario di gruppo, comporta parecchi problemi. Di sicurezza, senza dubbio, ma anche di ricadere in quella visione asfittica e distorta di una pratica erotica altrimenti capace di dare grandi soddisfazioni. Come riconoscere allora il maestro giusto?

Secondo la mia modesta esperienza gli indicatori più importanti sono l’umiltà e l’affidabilità. Alla larga quindi da chi faccia grandi dichiarazioni che non possano essere dimostrate, o basi il suo curriculum solo su prove autoreferenziali. Per riempirsi il sito personale di prodezze mirabolanti bastano un pomeriggio su WordPress e un buon fotografo; essere riconosciuti dalla comunità degli appassionati è tutta un’altra cosa, e la si può verificare con una rapida ricerca di Google. Alla peggio, io mi fiderei di più di qualcuno (e ce ne sono) che ammetta di avere una conoscenza limitata, ma solida.
Un buon docente, non solo nel campo del bondage, non millanta sapienze esoteriche né fomenta faide fra “scuole”. Soprattutto, un buon docente si preoccupa di insegnare i principi di sicurezza prima di tirar fuori le corde – e non fa sesso con gli allievi né ne abusa approfittando della sua presunta autorità. Perché sì, capita pure quello. Eccome.

Ma, soprattutto, un maestro di bondage non può essere l’unica risorsa alla quale rivolgersi. Spesso cito l’esempio di una coppia davvero deliziosa che frequenta Sadistique con regolarità. Affascinati da chi giustamente approfitta delle strutture messe a disposizione dal locale per esibirsi in complicate sospensioni e altre legature spettacolari, anni fa mi chiesero come imparare a realizzare quel genere di giochi. Il mio suggerimento fu di cominciare con qualche libro, per valutare se davvero avessero voglia di studiare l’argomento. Quando ci rivedemmo il mese dopo mi chiesero di suggerire loro altri testi, e solo quello dopo anche un istruttore per migliorare ciò che avevano imparato sperimentando fra loro. Alla festa successiva li vidi in un punto appartato, lontano dalle luci tanto cercate dagli altri rigger, a giocare con le corde in un modo unico, sensuale e bellissimo. Da allora non hanno fatto altro che migliorare, tenendosi ben lontani dalla competitività tipica di chi ancora del bondage non ha capito nulla. Che io sappia di lezione ne hanno fatta solo una – ma continuano a esplorare e integrare ciò che scoprono divertendosi un mondo.


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